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UN PROFETA
(UN PROPHETE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 marzo 2010
 
di Jacques Audiard, con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb (Francia, 2009)
 
L'inferno carcerario non è una novità. La galera come apprendistato alla malavita, nemmeno. E così, le lobby del potere che si prolungano all'interno delle mura, riproducendole, amplificandole; e con loro tutte le regole della sopraffazione. Il marcio che filtra, esasperandosi, dall'esterno. La fine dell'illusione (è il tema portante del film) di un male che si riesca a confinare all'interno delle migliori intenzioni; per preservare il bene che continuerebbe ad esistere al di fuori. Lo spazio occupato da UN PROPHETE è una sorta di dilagante terra di nessuno: incerta fra la normalità e il crimine, il realismo e la fantasticheria, la realtà della mortificazione e la lusinga del sogno.

Jacques Audiard è un cineasta in continuo affinamento: da REGARDE LES HOMMES TOMBER a DE BATTRE MON COEUR S'EST ARRETE' si sta affermando come il più continuo del cinema francese, fatto salvo un grande vecchio come Alain Resnais. E si fatica a trovare, ad eccezione di LA GRAINE ET LE MULET di Kechiche e, forse, della LADY CHATTERLEY di Pascale Ferran, un film dell'ultimo decennio in Francia altrettanto significativo di questo suo ultimo.   

Un veterano dalla presenza dirompente, Niels Arestrup, lo aiuta a costruire Luciani, un padrino impressionante della cosca corsa da fare invidia a quelli di Coppola, maestro nella mortificazione dell'individuo come nella manipolazione gerarchica del potere. Ma è il formidabile esordiente Tarar Rahim, il giovane arabo dal viso pulito, il piccolo delinquente che all'interno imparerà di tutto, a cominciare dall'alfabeto, l'anima portante di un discorso che acquisterà progressivamente la credibilità del proprio protagonista. Credibilità psicologica, sociologica, morale che finisce per superare la pure efficacissima ricostruzione (negli spazi, le tinte, i suoni, le musiche) di un territorio già esplorato.

Nel mosaico vertiginoso delle lingue (il francese, il dialetto corso, l'arabo; la presenza degli italiani e dei gitani) è con un microcosmo esistenziale esasperato ma esemplare che il giovane Malik si confronta. Non tanto nell'accettazione passiva, in un certo senso saggia delle regole imposte dalla violenza: quanto nell'acquisizione di uno statuto attraverso l'educazione e la cultura. Un apprendimento che gli avrà permesso di emanciparsi dal maghrebino analfabeta dai cinque euro nascosti nella suola di sei anni prima: ma per farsi caid di un'altra violenza, quella del profitto.


   Il film in Internet (Google)

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